La domanda di formazione

C'è un altro da formare

Occupandomi d’interventi formativi di gruppo o individuali in vari ambiti, su temi diversi, dallo stress lavorativo, alle procedure di corretto intervento in situazione di emergenza e di comunicazione efficace, in ambito sanitario, mi sono trovato spesso a costatare che un’attività formativa non è utile se non nasce da una richiesta esplicita (una domanda), che provenga al formatore da un individuo o un gruppo, definibile, perché tale proprio nel momento in cui esprime quella domanda, In Formazione.

Scopo di questo scritto sarà dunque cercare di illustrare che, quando si parla di formazione, non si tratta solamente della trasmissione di un sapere, ma piuttosto del far emergere preliminarmente una Domanda di Sapere, sia esso pratico, sia teorico. La trasmissione del sapere presuppone il desiderio di sapere, ma se si presuppone soltanto, se manca la necessaria e fondamentale azione di verifica (che si può esprimere nel saper articolare una risposta alla domanda: “Che cosa mi chiedono costoro?”) si fallisce sempre il bersaglio. La domanda di un’azione di formazione deve provenire dai reali utenti dell’azione stessa, più ancora che dai suoi committenti, perché fra gli uni e gli altri c’è spesso uno iato.

Si vorrebbe altresì dimostrare, che il metro di successo di un’azione formativa sarà l’attivazione, che essa produrrà nel gruppo in formazione, quindi qualcosa esterno all’azione del formatore, ma anche diverso da qualsiasi valutazione ex-post.

Ciò che sta prima e dopo l’azione formativa.

È necessario ripetere l’importanza di elementi che stanno prima e dopo l’azione formativa, perché oggi in molti ambiti si è ritornato a credere che sia sufficiente proporre un’idea, un’invenzione, un progetto, una diagnosi, un sapere, quale esso sia, e che ciò sarà di per sé in grado di creare nuova realtà. In quell’opera vasta che è la costruzione di realtà, qualcuno crede ancora o di nuovo che il progettare, dare obiettivi o direzioni, sia preponderante rispetto al far emergere i modi e le azioni alternative, che mettano in atto il sentire di un gruppo sociale, sia esso minuscolo, sia esso vasto ed esteso.

Più io procedo nella mia pratica d’intervento e di formazione, più riconosco che occorre condurre l’individuo e o il gruppo verso sentieri possibili, accettabili, innovativi (forse), che esso stesso potrà trovare, gradire e valutare come migliorativi rispetto alla solita vecchia via, che aveva finora percorso. Via che purtroppo ritornerà per lui o per loro sempre in quanto tradizione, rispetto all’innovazione possibile introdotta.

Sarà, in questo senso, il mettersi in azione dell’individuo e o gruppo, che testimonierà, che garantirà il successo, ma anche la validità del progetto. É la risposta allo stimolo fornito che sarà valutazione del processo e garanzia d’esattezza. Aldilà di ogni pretesa ingegneristica sul reale, è il modo con cui il gruppo o l’individuo si disporrà all’azione a dirige il sapere, che manterrà così anche un ruolo interpretativo del vecchio modo di essere e strategico del nuovo.

Chi è il mio cliente?

Capire chi è il proprio cliente è più complesso, anche perché la relazione che si stabilisce fra professionista e cliente sarà determinata direttamente da alcune caratteristiche fondanti il tipo di sapere insito in ogni specifica professione. La relazione fra professionista e cliente è apparentemente semplice, ma solo apparentemente, in quelle discipline che la assumono in modo apodittico. E mi riferisco, per esempio, a quanto passa nell’attuale pratica medica come normale relazione medico paziente.

Il modo semplice di considerare la relazione fra un professionista e il suo cliente presuppone le due posizioni reciprocamente autonome. All’opposto, è mia convinzione che fra un professionista, quale esso sia, da qualsiasi disciplina egli tragga le proprie condizioni di comprensione del reale, e il suo cliente, paziente, utente si realizzi invece un reciproco condizionamento. Ci troviamo di fronte sempre a una contaminazione di saperi, che ci si sforza in alcune situazioni di negare.

Identificarsi con una professione, essere un professionista, significa accettare un sistema di pensiero, attivare tecniche e valutazioni tali per cui l’oggetto dell’intervento di quella professione si trova a essere, parcellizzato, definito e forse anche reificato. Il modo semplice di considerare una relazione professionale implica purtroppo la definizione e la strutturazione, attraverso rapporti di forza, dell’altro sapere. Fra gli altri saperi, cui noi professionisti innegabilmente ci accostiamo o ci scontriamo, si devono considerare anche i saperi non disciplinari: quelli di senso comune, che però consentono innegabilmente a ciascuno di noi di vivere e di agire in un quotidiano ben più complesso di quanto non riusciamo sovente ad accettare.

Molte discipline hanno proposto e propongono a tutt’oggi la negazione, sia nella loro pratica, sia nella teoria, della necessità di un incontro con il sapere non disciplinare del proprio cliente. Molte discipline si credono proprio efficaci perché hanno tecnicizzato e cercato di rendere impersonale qualcosa che d’impersonale non è, non può esserlo e non lo è mai stato. Se questo sforzo di de-personalizzazione può essere efficace per la costruzione di strutture di potere, non ha nessuna utilità pratica nell’effettiva comprensione del reale, e nella dimensione formativa in quanto tale.

Il sapere del paziente, utente, cliente è fondamentale nel momento in cui intervengo sul suo problema. Se non so, ciò che il paziente, utente, cliente può sapere e fare, non sarò in grado di intervenire o il mio intervento scivolerà su di esso come inutile o peggio sarà rifiutato.

Posso, ad esempio, come medico, essere semplicemente soddisfatto del fatto che il mio paziente abbia accettato la mia diagnosi e la cura che gli ho im-posto. Posso anche disinteressarmi di quanto succede dopo, del come egli faccia o non faccia tale cura, posso ulteriormente colpevolizzarlo, se raggiungo la consapevolezza che non la segue o lo fa in modo parziale, ma se non giungo a comprendere perché ciò accada, il mio intervento sarà fallito. Se non imparo qualcosa da quell’inganno parziale, che il paziente attua quando si mette in relazione con il mio sapere, non imparo nulla. Ovviamente posso accontentarmi dell’onnipotenza che si esprime nella famosa frase: “L’operazione è riuscita, ma il paziente è morto…”.

La domanda di formazione, mi modifica

La cifra metodologica di una formazione, che si fonda sulla trasparenza dell’enunciazione: “Sto facendo formazione”, nasce e non può che originarsi da una domanda e dalla sua progressiva estensione. La domanda è il primo anello di un ciclo metodologico. Senza la domanda, come presupposto di un soggetto (singolo o collettivo) che la mette in atto, non ci può essere formazione.

Si fa formazione nel momento in cui un soggetto sociale (gruppo, comunità, organizzazione, singolo individuo) chiama in causa alla ricerca di una propria maggiore consapevolezza un formatore o un gruppo di formatori. La metodologia della formazione, presuppone dunque un soggetto supposto sapere. Il quale, come primo passo del proprio intervento, proporrà una rilettura e una trasformazione di questa domanda in qualcosa d’altro. Di fronte a questa domanda fuggevole, il formatore può diventare: colui tramite il quale gli attori rivelano a se stessi la loro posizione (Touraine 1980).

Questa domanda definisce immediatamente il formatore. Lo definisce, lo obbliga, lo costringe a una scelta di campo. Innegabilmente, un formatore non può che presupporre la modificabilità nel sociale, opponendola all’idea di persistenza dell’identico, ma è la sua condizione d’individuo umano quella che è maggiormente messa in gioco dalla formazione. In prima approssimazione, si può affermare che il formatore si caratterizza, traducendo liberamente dalla lingua francese, in quanto Implicato. Purtroppo questa parola in italiano fa pensate a un criminale…

Il formatore non è un estraneo, è implicato cognitivamente e affettivamente nel problema, trasmette agli altri questa sua implicazione, si mette in gioco e sa rinunciare a un certo punto a tale implicazione.

Se c’è un soggetto che fa la domanda d’intervento di formazione, se questa specifica domanda esiste aldilà del formatore, non di meno tale domanda è messa in atto dalla presenza di un formatore, che è supposto sapere rispondere a quella domanda che l’ha originata. Se il primo step dell’intervento formativo è l’Accoglimento della domanda di un richiedente, il secondo, ancora più importante del primo, è la Restituzione di tale domanda in modo trasformato all’enunciatore della stessa. Il nucleo dell’intervento formativo è offrire, a chi ne fa richiesta, dei Dispositivi Analizzatori, degli strumenti di saggio e una Lettura Interpretante di quanto emerge in tale, ancor prima di aver intrapreso l’intervento formativo.

Se si attuano questi due passi, il possibile progetto formativo non solo è condiviso, ma è prodotto anche dal richiedente. Il miglior progetto formativo sarà sempre costruito assieme al soggetto richiedente, sia nella forma, sia nel contenuto, sia nel supporto materiale, sia nell’attuazione operativa. Per usare una metafora, così si costruisce assieme, sia la propria Cartina al Tornasole, sia l’azione di saggiare con essa.

La creazione di un progetto formativo condiviso contribuisce già da subito a solubilizzare il problema, che è all’origine della domanda di formazione.

Il percorso di K. Lewin

Più di settanta anni fa Kurt Lewin (1890-1947) con un team multidisciplinare lavorò per conto del Governo USA a quello che si può definire una della più grandi azioni formative pensate da un committente, e affidate a un esperto. Si trattava di trasformare le abitudini alimentari delle famiglie in modo da renderle più adatte all’economia di guerra in cui il paese si trovava costretto (Lippitt e White 1958). Da questa esperienza, che presentava anche alcuni limiti, che discuteremo nella parte conclusiva, si possono trarre precise indicazioni sulla costruzione d’azioni formative efficaci.

Le elencheremo qui:

Il cambiamento dell’atteggiamento individuale è più facile da realizzarsi quando ha luogo in una situazione di gruppo. Il gruppo può arrivare ad apprendere la matrice dei fattori determinanti il proprio funzionamento e avvenire. Tutto ciò si avverrà attraverso un libero scambio d’informazioni e un processo decisionale, che tenderà all’integrazione dei diversi punti di vista, denominato Processo di Autoregolazione.

I comportamenti e le abitudini individuali non sono determinate direttamente da desideri, motivazioni o bisogni individuali, ma realizzati, nel senso di rese reali, con la mediazione di norme culturali cui gli individui fanno riferimento. Ciò significa che queste rappresentazioni sono il luogo in cui si potrà effettuare il cambiamento, sono Variabili Intermedie. Inoltre, il gruppo può crearsi delle proprie rappresentazioni, che controlleranno il suo comportamento, aldilà di qualsiasi altra determinazione esterna.

Il cambiamento avviene per riduzione della resistenza, piuttosto che per accrescimento dell’azione impositiva. Si tratta allora nell’intervento di ridurre le resistenze all’innovazione.

Fondamentale in tutto ciò il ruolo dell’agente di cambiamento, il formatore, diremmo noi. Suo compito principale è di facilitare attivamente lo sviluppo del processo di autoregolazione, attraverso: a) L’individuazione e il superamento di quei blocchi, che impediscono la nuova produzione normativa; b) L’implementazione di attivazioni concrete di apprendimento (d’ora in avanti si può fare anche così, non solo come hai fatto finora).

Seguire questa traccia aiuta a progettare una formazione efficace. Purtroppo ancor oggi tante occasioni di miglioramento si perdono perché non si sono considerati questi insegnamenti elementari, dando a questa parola il vero significato etimologico.

Di certo il limite fondamentale di Lewin, e forse in genere degli studiosi della sua generazione e della sua epoca, è la difficoltà a intendere la domanda del gruppo, e proporre semplicemente un’attivazione che un altro, che non è né lui, né il gruppo, ma il committente, ha deciso. Il ruolo dell’agente di cambiamento in Lewin è ricco di contraddizioni. È sì un nuovo tipo di ricercatore sociale, che lavora con e non su un gruppo, tuttavia in lui vi è un lato oscuro, vi è in lui del non-detto.

Conclusioni

Il grande sforzo dei professionisti della formazione oggi è porsi sul limite fra le discipline e l’indisciplina, fra strutturazione e immaginario. Si tratta del famoso equilibrio instabile, che si manifesta sull’orlo della propria catastrofe nel fallirla.

Così la relazione, il modo con cui noi professionisti siamo in una relazione con i nostri clienti, deve essere costantemente vigilato. Se non si vigila esso tende paurosamente a precipitare verso una routine, che giustifica ogni fallimento con la colpa del soggetto debole: paziente, utente o cliente che sia.

Far nascere una vera domanda d’intervento formativo può e deve essere la nuova meta del lavoro del professionista. Ogni intervento che presupponga la cura dell’altro non può prescindere da una domanda: sarà condizione affinché non si determini la narcisizzazione del professionista nel suo oggetto e del soggetto, che la propone, nel professionista.

“Che cosa vuoi da me”? È la domanda del professionista.

“Che cosa sto facendo qui”? È la domanda del cliente.

Se manca una sola di queste due domande, s’innesca automaticamente la relazione che F. Hegel, in Phänomenologie des Geistes, ben prima di S. Freud in Totem und Tabu, pone alla base della convivenza sociale: la dialettica fra servo e padrone.


Bibliografia


Lewin K. (1951), Problems of Research in Social Psycology, Harper, NY, trad. in Palmonari A. (a cura di) 1972, Teoria e sperimentazione in psicologia sociale, Il Mulino

Lippitt R. e White R.K. (1958), An experimental study of leadership and group life, in Maccoby E.E., Newcomb T.M., Hartley E.L. (eds), Readings in social psychology, Holt, Rinehart & Winston

Touraine A. (1980) La méthode de la Sociologie de l’action: l’intervention sociologiques, Revue Suisse de Sociologie, 6, 321-334, trad in Minardi E. e Cifiello S. (a cura di), 2005, Ricerca-azione. Teoria e metodo del lavoro sociologico, Angeli